MAGGIO 1920: LE "GIORNATE ROSSE", CRONACA DI UNA RIVOLUZIONE IMPOSSIBILE
Nel maggio del 1920, Viareggio visse un’avventura drammatica ed esaltante. L’uccisione di Augusto Morganti da parte di un carabiniere, in seguito agli incidenti che si verificarono al termine di una partita di calcio, disputata tra la rappresentativa viareggina e quella lucchese sul terreno di gioco di Villa Rigutti, fu la scintilla di una spontanea e violenta rivolta popolare contro le istituzioni.
Per tre giorni, dal 2 al 4 maggio, estromessa ogni forma di autorità, Viareggio fu isolata dal resto del territorio, e mentre sul palazzo del Municipio sventolava il nero vessillo dell’anarchia, improvvisate “guardie rosse” si opponevano dietro precarie barricate allo Stato che, mobilitati esercito e marina, cingeva in assedio la città facendo sfoggio di forza, ma anche dimostrando incertezze decisionali ed incapacità di azione. Per meglio comprendere il clima in cui si verificò questo drammatico “incidente”, che fu poi la scintilla che dette origine alle cosiddette “giornate rosse”, è utile conoscere alcuni importanti antefatti.
Il giorno 11 aprile, Lucca ospitò lo Sporting Club di Viareggio per la gara di andata tra le due squadre di calcio. In quella circostanza ai viareggini fu riservata un’accoglienza ostile e violenta e sembra che la tifoseria bianconera avesse promesso di rendere la pariglia ai lucchesi, in occasione dell’atteso match di ritorno. La cosa preoccupò i dirigenti della squadra lucchese che si rivolsero al Comitato regionale toscano di calcio il quale invitò i lucchesi a non accompagnare la propria squadra a Viareggio, per evitare incidenti tra le opposte tifoserie.
Così, il 2 maggio, l’Unione Sportiva Lucchese si presentò a Viareggio seguita solo da un esiguo numero di sostenitori. A dirigere questa partita, che aveva tutte le premesse per essere considerata potenzialmente “a rischio”, fu incaricato l’arbitro lucchese Rossini, mentre svolse le funzioni di guardalinee il viareggino Augusto Morganti, ex ufficiale di complemento in congedo.
Le tensioni che avevano caratterizzato la vigilia dell’incontro non si attenuarono con il fischio di inizio della partita e i numerosi spettatori, quasi tutti sostenitori della formazione locale, seguirono, con esasperata passione, il match disputato con intenso agonismo, caratterizzato da un gioco troppo rude e dal risultato sempre incerto. Il primo tempo si chiuse con la formazione locale in vantaggio di due reti, poi nella ripresa la Lucchese riuscì a recuperare, terminando la gara in pareggio.
A giudizio dei tifosi locali questo risultato fu ottenuto anche grazie ad alcune decisioni arbitrali abbastanza “sospette” ed aspramente contestate.
A pochi minuti dal termine della partita, il Morganti segnalò un fallo commesso dal giocatore della Lucchese Bonino, che per tutta risposta offese malamente il guardalinee.
Mentre fra i due si accendeva un animato diverbio, l’arbitro decretò la fine della gara a tempo non ancora completamente scaduto e mentre la Lucchese sembrava subire il gioco dei viareggini, che non avevano mai cessato di sperare di vincere l’incontro.
Questa decisione non piacque al Morganti che protestò energicamente nei confronti del direttore di gara, mentre nel campo i giocatori delle due squadre vennero alle mani.
La spettacolo che si consumava in campo infiammò gli animi del numeroso pubblico, tanto che circa quattrocento spettatori si riversarono nel rettangolo di gioco dando origine ad una colossale rissa, con scambio di pugni ed anche di bastonate.
Per cercare di ristabilire l’ordine intervennero il Commissario di P.S. dottor Martorelli, con alcuni agenti, ed il tenente dei carabinieri Dogliotti, con sette militari, che, a fatica, riuscirono a portare all’interno di Villa Rigutti i giocatori della Lucchese con il loro esiguo seguito, trattenendo la folla infuriata fuori del cancello della villa.
La notizia dell’accaduto volò di bocca in bocca, cambiando ogni volta versione ed assumendo sempre più vaste proporzioni, tanto che alla caserma dei carabinieri giunse voce che il tenente Dogliotti era stato percosso e che la folla stava per sopraffare la forza pubblica.
Allora il maresciallo Taddei, con i sette militari ancora presenti in caserma, si precipitò al “campo del Puosi”, dove si era disputata la partita. Percorsa la via Fratti si trovarono di fronte la folla minacciosa che assediava la villa e che accolse il loro arrivo con urla e fischi.
Il maresciallo fece disporre i suoi uomini in “linea di fronte” e comandò di sgombrare l’ingresso della villa per poter raggiungere il tenente Dogliotti e mettersi ai suoi ordini.
All’avanzare dei carabinieri, la folla lentamente indietreggiò, urlando nuove minacce nei confronti dell’arbitro, dei giocatori della Lucchese e della forza pubblica, intervenuta in loro difesa.
Proprio quando sembrava scongiurato il pericolo di uno scontro tra i militari ed i tifosi bianconeri, successe il dramma. Un colpo esploso dalla rivoltella del carabiniere Natale De Carli raggiunse al volto, quasi a bruciapelo, il guardialinee Augusto Morganti, ferendolo mortalmente.
L’improvviso sparo ebbe l’effetto di disorientare la folla che si sparpagliò in tutte le direzioni in cerca di un riparo per poi ritornare quasi subito, ammutolita e sgomenta, dove il Morganti era caduto, senza vita, in un lago di sangue.
Per un attimo nessuno sembrò interessarsi più dei carabinieri e dei giocatori lucchesi asserragliati nella villa.
Tanto bastò al tenente Dogliotti per riunire i suoi uomini e per riportarli incolumi in caserma. Anche i tifosi ed i giocatori lucchesi ne approfittarono per uscire dallo spogliatoio e per allontanarsi dal campo da una porticina posta sul retro, e raggiungere a piedi Massarosa.
Intanto il Morganti fu portato all’infermeria della Croce Verde, in via Machiavelli, con la carrozza di Fortunato Summonti, detto “Pio Nono”, giungendovi ormai senza vita.
Gli avvenimenti che seguirono si svolsero a ritmo frenetico, sull’onda dell’eccitazione, della commozione ma anche della rabbia. La notizia della brutale uccisione di Augusto Morganti corse di bocca e in bocca e di lì a poco una moltitudine di persone, uomini e donne, prese d’assedio la caserma dei carabinieri reclamando la consegna di chi aveva sconsideratamente fatto fuoco. Il tentativo di giustizia sommaria fu sventato dalla reazione energica dei carabinieri, che esasperò maggiormente gli animi dei tumultuanti che si posero alla ricerca di armi.
Divisi in gruppi si recarono nei locali del Tiro a Segno, dove si impadronirono di tutti i fucili che vi erano depositati, successivamente irruppero nella caserma del 32° Artiglieria, adiacente alla Torre Matilde, dove riuscirono a disarmare i militari senza che questi opponessero alcuna resistenza.
Poi, mentre veniva nuovamente e con più violenza presa d’assalto la caserma dei carabinieri, gruppi di popolani armati, dopo aver percorso le strade cittadine, imponendo la chiusura dei pubblici esercizi e interrompendo la circolazione dei tram, occuparono la stazione ferroviaria bloccando il transito dei treni e quindi sbarrarono le principali vie d’accesso con improvvisate barricate per impedire l’ingresso delle truppe, che sarebbero state inviate di lì a poco a Viareggio per ristabilire l’ordine.
Gino Sartori, Commissario Regio che dal 27 ottobre 1919 amministrava il Comune di Viareggio, appena fu informato del tragico epilogo dell’incontro di calcio e di come era degenerata la situazione informò il Prefetto di Lucca che dispose l’immediato invio di un primo contingente di militari e richiese più consistenti rinforzi al Ministero dell’Interno.
Nel frattempo i rappresentanti della Camera del Lavoro, dopo aver dichiarato lo sciopero generale ad oltranza, avevano preso in mano le redini della rivolta ed iniziato, con l’aiuto dell’autorevole opera di mediazione dell’on. Luigi Salvatori, una difficile trattativa con le autorità politiche e militari dello Stato per concordare le modalità di un ritorno all’ordine senza il ricorso all’uso della forza e per scongiurare gravi conseguenze per chi in qualche modo aveva partecipato ai disordini o comunque aveva aderito alla protesta. L’eco di quanto stava accadendo a Viareggio giunse a Roma in modo frammentato, in ritardo rispetto al rapido evolversi degli eventi, con una serie di informazioni poco chiare e comunque non sufficienti a fornire un quadro preciso della reale entità degli avvenimenti in corso. La preoccupazione del Governo fu comunque subito grande, tanto da richiedere al Prefetto e alle autorità militari un’azione di “vigore e di fermezza”, ipotizzando anche che dietro i fatti di Viareggio potesse esservi una regia occulta di origine straniera.
Il comportamento del Prefetto, che invece di prendere decisioni “ferme e vigorose” scelse la via del dialogo con i rappresentanti dei “rivoltosi” per un ritorno alla normalità senza fare ricorso all’uso della forza, fu valutato negativamente. Con un telegramma di poche righe Nitti, Presidente del Consiglio sospese dall’incarico il Prefetto, per “l’incapacità dimostrata”, e passo tutti i poteri al generale Nobili con l’ordine di ristabilire immediatamente la legalità. Per la cronistoria dettagliata di quei giorni si rimanda al “quaderno di storia e cultura” “Le giornate rosse”,edito a cura del Centro Documentario Storico. Anche se la “rivoluzione” viareggina fu un episodio circoscritto, gli effetti che produsse varcarono i confini locali ed interessarono tutto il territorio nazionale.
La cronaca di quei giorni di fuoco, mette in evidenza il carattere spontaneo della “rivoluzione” viareggina. Una rivoluzione senza capi, che divampò inizialmente spontanea, assolutamente priva di regia e di finalità eversive, ma piuttosto come la forte risposta di un popolo dallo spirito fiero e libertario di fronte alla violenza ingiustificata e ai soprusi, e che si esaurì senza un epilogo drammatico solo grazie al ruolo responsabile e all’opera di mediazione che svolsero le associazioni politiche e sindacali viareggine, che davanti al fatto compiuto seppero controllare il concitato evolversi di situazioni ed eventi, e che ebbero nell’avvocato Luigi Salvatori, deputato socialista, il loro carismatico ed autorevole rappresentante.
Ma torniamo alla cronaca di quei giorni di fuoco. Alla ore 16 del 4 maggio, fu celebrato il funerale di Augusto Morganti, con la partecipazione di quasi tutta la popolazione viareggina, delle rappresentanze delle forze politiche e sindacali e dei gruppi anarchici appositamente giunti in città da tutta la Versilia, ma anche da Pisa e Livorno.
Poi, dopo le esequie funebri, in un comizio tenuto davanti al Municipio fu comunicata la cessazione di ogni agitazione e la decisione della regolare ripresa del lavoro in tutti i cantieri e le fabbriche. Durante la notte i numerosi anarchici che erano confluiti a Viareggio abbandonarono la città che fu occupata dalle prime ore dell’alba da un ingente quantitativo di truppe, nel timore di nuovi disordini.
Nei giorni successivi le forze dell’ordine furono impegnate nella ricerca delle numerose armi che i “rivoltosi” avevano tolto ai militari, perquisendo le abitazioni degli “individui più temibili”, scandagliando i fondali delle darsene e del canale, ma nonostante questa operazione minuziosa e in larga scala, dei quasi 100 fucili ne furono recuperati solo 23 . Inoltre, tra l’8 e il 12 maggio furono denunciati ed arrestati, con gravi imputazioni (tentato omicidio, resistenza e violenza, formazione di banda armata) quelli che furono ritenuti i “maggiori responsabili” della sommossa: Raffaello Fruzza, Alfredo Santarlasci, Cesare Corrieri, Guido Patalani, Maria Anna Genovali, Rosa Bertelli detta “Beghera”, Guerrino Fancelli, Uliano Albiani, Lelio Antinori, Gaspere e Pertinace Summonti, Alessandro Bandoni, Alfeo Pelliccia, Gino Gerard, Giuseppe Di Ciolo, Giulio Simonini, Margherita Pivot, Michele Orlando e Romeo Biagini.
Nel corso dei vari gradi di giudizio le responsabilità penali dei vari imputati, quasi tutti semplici popolani che non ricoprivano ruoli importanti all’interno di nessuna organizzazione politica o sindacale, furono notevolmente ridimensionate.
Dopo i provvedimenti emessi dal Tribunale di Lucca il 25 novembre 1920 e dopo le decisioni della Corte di Appello del marzo 1921, gli imputati furono tutti assolti ad eccezione di Bandoni, Pelliccia, Gerad e Biagini, che furono condannati per reati minori a pene comprese fra 3 e 8 mesi, anche questi rimessi in libertà in quanto avevano già scontato la pena in carcere in attesa di giudizio.
Per individuare le responsabilità dei rappresentanti delle autorità politiche e militari, colpevoli, con il loro comportamento troppo remissivo, di non aver “mantenuto alto il prestigio dello Stato”, furono avviate tre inchieste: una promossa dal Ministero della Guerra a carico delle gerarchie militari, due dal Ministero dell’Interno che interessò funzionari di governo e di Pubblica Sicurezza. Particolarmente pesanti furono gli addebiti mossi nei confronti dei rappresentanti delle forze armate, a partire da quelli di grado superiore: alcuni generali furono esonerati dal comando, diversi ufficiali di vario grado sospesi dal servizio e posti “agli arresti” e numerosi soldati denunciati al tribunale militare.
Per Viareggio il ritorno alla normalità non fu immediato e non senza problemi. Il mancato recupero di tutti i fucili, nonostante le accurate ricerche e le insistenti sollecitazioni alla riconsegna, era causa di gravi preoccupazioni perché si temeva che queste armi potessero essere utilizzate per altri e più gravi disordini. Per precauzione la città fu per alcuni mesi presidiata da un ingente quantitativo di truppe ed inoltre furono adottati alcuni provvedimenti che limitavano la libertà della popolazione.
Infatti, il Prefetto vietò “cortei pubblici, comizi, assembramenti e la libera circolazione agli automezzi”, e questa disposizione, che rimase in vigore fino alla fine di giugno, ebbe subito una ricaduta negativa sull’attività turistica legata alla stagione balneare.
Questi provvedimenti suscitarono le immediate ed unanimi proteste delle categorie economiche e commerciali viareggine e furono oggetto anche di alcune interrogazioni parlamentari presentate dall’on. Luigi Salvatori alle sedute della Camera dei Deputati del 7 maggio e 24 giugno 1920 .
I timori che le ceneri delle “giornate rosse” potessero generare nuovi e più gravi fuochi di protesta risultarono completamente infondati. Viareggio, nei giorni che seguirono, riprese la vita di sempre ed allora, anche per non ostacolare ulteriormente la stagione balneare in corso, tutte le misure restrittive adottate furono gradatamente revocate: il 1 luglio fu abolito il divieto di circolazione; il 4 agosto tutte le truppe furono ritirate dalla città.
Per concludere ritorniamo sull’episodio che generò le “giornate rosse”: l’uccisione di Augusto Morganti da parte del carabiniere Natale De Carli. Questi, il 13 ottobre 1921, fu processato dal Tribunale Militare di Firenze, dove fu assolto per “avere agito per legittima difesa”, con una sentenza che sconfessò la prima ricostruzione dell’incidente trasmessa al Ministero dell’Interno in data 10 maggio dove si può leggere proprio che: “trattasi di episodio isolato senza conflitto fra popolazione e carabinieri e rimane esclusa provocazione e legittima difesa”.
Per la storia, successivamente il Ministero dell’Interno rimborsò al De Carli la somma di L. 1200 spese per all’onorario dell’avv. fiorentino Villella, che lo difese al processo. Anche se l’idea rivoluzionaria che entusiasmò subito il popolo viareggino non riuscì a superare l’assedio in cui fu stretta la città, l’episodio delle “giornate rosse” è comunque una pagina “eroica” della storia di Viareggio che testimonia l’avversione verso ogni sopruso e lo spirito libertario ed anarcoide, che da sempre caratterizzano l’animo dei viareggini. Quello di un popolo che, per Luigi Salvatori, “sotto la spinta di una emozione, può diventare eroico e che sotto una unità di visione può rendere gigantesche, oltre il verosimile, quelle forze, che all’osservatore di giorni quieti apparivano normali e modeste”.
Paolo Fornaciari
Fonte: www.comune.viareggio.lu.it
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